A.C. 348-B
Grazie Presidente, colleghi, Viceministro, quello di cui discutiamo oggi è un provvedimento di legge molto atteso, siamo alle battute finali che porteranno questo Parlamento ad approvare una legge già lungamente dibattuta nelle precedenti legislature e non arrivata, tuttavia, a compimento. Si tratta di una legge nata, voglio ricordarlo, dal confronto con gli «agricoltori custodi», con Slow Food, con il mondo agricolo, con quello ambientalista e anche con il mondo accademico, con tutti coloro cioè che da decenni hanno lanciato l'allarme dell'erosione genetica che ha drammaticamente interessato le risorse vegetali e animali e, quindi, coloro che hanno ingaggiato una battaglia per arginarla. È una proposta di legge che si è ulteriormente arricchita del contributo apportato in Commissione da tutti i gruppi parlamentari.
È una proposta di legge che tiene conto degli orientamenti normativi mondiali ed europei e che, finalmente, definisce un quadro normativo nazionale, tenendo conto anche delle tante esperienze legislative delle diverse regioni che già da diversi anni hanno stabilito norme che permettessero, innanzitutto, di tutelare le varietà a rischio di estinzione, ma anche di valorizzarle, premiando proprio quegli agricoltori che hanno lavorato in tal senso, quegli agricoltori e allevatori definiti «custodi» perché, attraverso il proprio lavoro, attraverso la capacità di fare rete, unendo esperienze da una parte all'altra del mondo, hanno custodito varietà vegetali e razze animali che sarebbero state destinate alla progressiva e inesorabile estinzione. Gli agricoltori dei tempi passati hanno sempre provveduto all'accantonamento di una parte del seme al momento della raccolta per poterlo riseminare l'anno successivo. In questo modo è stata svolta anche una selezione che ha permesso alle varietà, agli ecotipi, alle razze animali migliori di adattarsi a quelle determinate condizioni di terreno e di clima e di essere tramandate con uno scambio della materia vegetale e animale tra contadini vicini. Molte cultivar di ortive recuperate, conservate e coltivate dalla rete degli agricoltori custodi hanno caratteristiche di elevata e regolare produttività, di resistenza a fattori climatici quali la siccità, per la capacità di sviluppare apparati radicali in grado di esplorare il terreno in profondità alla ricerca di acqua ed elementi nutritivi. Si tratta, cioè, di varietà rustiche che non necessitano dell'apporto continuo e massiccio di unità fertilizzanti. Altre presentano specifica resistenza nei confronti di insetti, funghi e batteri; richiedono, cioè, scarsi o nulli trattamenti fitosanitari. Gli ecotipi locali e le cultivar affini e selvatiche, quindi, rappresentano una riserva di geni a disposizione dei selezionatori e dei ricercatori per essere studiata e sfruttata al fine di trasferire nelle cultivar migliorate quei caratteri così importanti per rispondere anche ai cambiamenti ambientali in atto.
I dati FAO già riportati da alcuni colleghi, e in origine riportati dall'onorevole Cenni nella sua dichiarazione di voto resa nel primo passaggio della legge in questo ramo del Parlamento – onorevole Cenni che anch'io voglio ringraziare per avere con questa legge posto l'attenzione su un argomento così importante – dicevo, i dati FAO spero siano in grado di farci riflettere, perché ormai poco più di 120 specie di piante coltivate forniscono il 90 per cento degli alimenti, ma soltanto 12 specie vegetali e 5 animali forniscono più del 70 per cento del nostro cibo.
L'agricoltura dell'ultimo secolo si è mossa su una direttrice molto pericolosa, quella dell'estrema standardizzazione, minando le basi della sua stessa potenziale crescita, privando da un lato gli agricoltori della libertà di coltivare ricercando le varietà più adatte ai diversi ambienti; e i consumatori dall'altro lato, che hanno visto il progressivo e costante assottigliarsi delle varietà di cibo.
In natura esistono oltre 3.600 varietà appartenenti al genere phaseolus, a fronte delle 5 tipologie di fagioli che siamo abituati a trovare sugli scaffali della grande distribuzione, oltre 4.000 varietà di pomodori, oltre 1.000 di zucche, oltre 200 di aglio: tipi caratterizzati da forme, dimensioni, colori diversi, da diversa stagionalità e con diverse proprietà organolettiche e alimentari. Ogni regione e ogni località aveva i propri cereali, i propri ortaggi tipici, la razza bovina o l'animale da cortile più adatto a quella parte di Paese. Le risorse genetiche perse non potranno essere restituite alla collettività, e insieme ad esse sono dispersi per sempre il sapere dei contadini e il rispetto della fatica necessaria per mettere insieme tanta sapienza.
Compiremmo un errore grossolano, se pensassimo che approvare questa legge possa portare ad una cristallizzazione dell'esistente: anzi, forse ad un ritorno al passato, con contestuale negazione dell'importanza che la ricerca e l'innovazione, anche genetica, hanno rappresentato per il settore primario. Questa legge parla esattamente il linguaggio opposto: non si può pensare ad un'agricoltura che sia moderna e innovativa e che guardi alle generazioni future, se lasciamo sul sentiero della nostra crescita tanta conoscenza, tanto patrimonio genetico; che comunque abbiamo il dovere di conservare, perché altrimenti potrebbe diventare difficile immaginare di poter nutrire il pianeta. Abbiamo però anche dovere di tramandarlo, e quindi anche di coltivarlo, utilizzando le enormi potenzialità che questo può significare per le tante popolazioni della terra in termini di autodeterminazione e di capacità di reagire alle crisi.
Non mi soffermo sull'articolato della legge, già ampiamente descritto sia dal relatore, onorevole Fiorio, sia dagli altri colleghi; ma voglio richiamare all'attenzione dell'Aula il comma 2 dell'articolo 1, nel quale si afferma che la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare sono perseguite anche attraverso la tutela del territorio rurale, contribuendo a limitare i fenomeni di spopolamento e a preservare il territorio da fenomeni di inquinamento genetico e di perdita del patrimonio genetico; e l'articolo 13, che titola Comunità del cibo e della biodiversità di interesse agricolo e alimentare, nel quale viene dato un ruolo chiave agli ambiti locali e ai territori in termini di organizzazione finalizzata alla stipula di accordi tra agricoltori locali, agricoltori e allevatori custodi, che si interfacciano con la collettività, alla quale offrono e fanno conoscere i propri prodotti. La quale collettività è chiamata, in un rapporto di reciproco scambio e sostegno, a valorizzare il loro lavoro, non solo di produzione, ma anche di tutela e di salvaguardia, attraverso scelte alimentari consapevoli che sono scelte anche educative e culturali. Viene cioè riconosciuto il ruolo determinante delle collettività e dell'agricoltura quale forma di salvaguardia e di gestione del territorio, in un processo in divenire in cui questa attività sia in grado di confrontarsi da un lato con le sfide che le vengono sottoposte dal mercato, e di garantire all'agricoltore dall'altro lato la giusta remunerazione.
Per dare risposte soddisfacenti a queste domande non esiste solo la via della semplificazione dei sistemi, che anzi nel tempo in molte circostanze si è rivelata fallimentare. Nell'approcciarsi ai sistemi agricoli, che prima di essere tali sono sistemi naturali, l'agricoltore non dovrebbe, a mio modesto avviso, avere quale primo pensiero quello di rendere le cose semplici per se stesso e per il proprio lavoro. È esattamente il contrario: dovrebbe trovare il modo a lui più consono per inserirsi nella complessità propria degli agro-ecosistemi, che sono di difficile gestione solo in apparenza. Ecco che, accanto alla salvaguardia delle varietà di interesse agricolo ed alimentare vegetali e animali in via di estinzione, viene affidato all'agricoltura anche il ruolo di favorire la biodiversità in quegli ambienti naturali prossimi ai campi coltivati, o rigenerati in aree loro limitrofe: in particolare attraverso l'attuazione di programmi comunitari, che hanno tra l'altro l'obiettivo di riconoscere questo ruolo all'agricoltore dal punto di vista economico.
La sfida di nutrire il pianeta nel prossimo futuro dipenderà anche dalla capacità che avranno le nostre scelte di incidere sulla possibilità di favorire lo sviluppo del settore primario a misura delle diverse realtà agricole, anche e soprattutto di quelle realtà contadine e familiari che in gran parte del mondo garantiscono il cibo e la sopravvivenza alimentare alle popolazioni di quegli Stati. Coloro che ad Expo 2015 hanno avuto la possibilità di visitare il padiglione del Messico, a me è rimasto molto impresso, si sono trovati a metà percorso di fronte a due suggestive sculture, coloratissime e caotiche. Una era la rappresentazione della biodiversità presente in quel Paese di tutti i semi, e quindi dei cibi e dei sapori, che il Messico ha saputo donare al mondo, come a dire che la biodiversità, le varietà animali e vegetali appartengono a tutti e debbono essere condivise e che, quando si parla di cibo, è difficile accettare che il mercato mondiale delle sementi sia in mano a quattro grandi multinazionali che gestiscono volumi di affari elevatissimi. È anche quanto hanno affermato le tante associazioni, da Slow Food a Mani Tese, che sono state in grado di animare l'esposizione con incontri e dibattiti sfociati in proposte concrete sui temi del cibo e della sua produzione nel prossimo futuro, sulla salvaguardia della biodiversità e sulla necessità che si affermi un altro modello di sviluppo anche in agricoltura. Sta alla politica e alle istituzioni non lasciare cadere inascoltate tali richieste e fare in modo che – lo dico, scusandomi con lui, prendendo in prestito e adattando taluni concetti che Luigino Bruni espone nel suo libro «Il mercato e il dono. Gli spiriti del capitalismo» – il mercato dei prodotti agricoli e dei semi, il mercato del cibo, non sia un luogo di relazioni anonime e impersonali e credo che la legge che stiamo per approvare rappresenti un primo passo in tale direzione (Applausi).